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Lavoro: vino nuovo in otri vecchi?

Aggiornamento: 11 feb 2023



È possibile prendere spunti dall'antropologia per capire meglio il mondo del lavoro?


Quando si tratta di Lavoro, nelle sue diverse implicazioni, si è inclini a ritenere che gli strumenti di analisi esistenti siano già qualitativamente sufficienti. La convinzione resta in piedi finché non accade qualcosa che non riusciamo a spiegarci; è esemplare, al proposito, il caso delle dimissioni volontarie (al netto di quelle incentivate e dei passaggi ad altri lavori) di tanti lavoratori che, in uscita dalla pandemia, hanno rinunciato al posto che occupavano.


La mia convinzione, che non nasce soltanto da questa contingente difficoltà interpretativa, è che occorre mantenere alta la sofisticazione delle analisi per una serie di ragioni, tutte riconducibili ai nuovi scenari che si vanno configurando.


Un buon punto di partenza per motivare questa rinnovata attenzione è anche l’importanza che comunemente attribuiamo al PIL, la cui crescita, se vogliamo almeno mantenere gli abituali standard di vita e di Welfare, resta, almeno nel medio termine, una variabile non aggirabile.


Fermandoci all’aspetto contabile, il PIL di un Paese dipende dalla dimensione demografica (spesso trascurata) e dal PIL per abitante che, a sua volta, può aumentare perché cresce l’intensità occupazionale (più persone lavorano o chi lavora lo fa in media per più ore) o perché aumenta l’efficienza e la produttività di ogni ora lavorata (Sestito).


Anche in “prospettiva PIL” il Lavoro emerge, quindi, in una centralità che si sovrappone a quella, non solo economica, che ha sempre avuto nella vita delle persone e delle famiglie e si conferma un pilastro decisivo per la realizzazione del bene comune.


L’attività lavorativa merita, pertanto, una messa a fuoco puntuale che deve essere elaborata e, possibilmente, condivisa da tutti gli attori interessati: una focalizzazione rivolta, non soltanto all’attività lavorativa in senso stretto, ma anche alla Formazione, all’Orientamento, alla modulazione dei rapporti Scuola Lavoro, allo studio di più realistiche politiche sull’Immigrazione, nonché, a tacer d’altro, alla predisposizione di efficaci strumenti di Conciliazione tra lavoro e vita familiare.


Al fine di migliorare l’attendibilità degli strumenti di analisi disponibili, occorre primariamente identificare gli elementi di novità sparsi nella contemporaneità -che, genericamente, tutti percepiamo- e chiederci se non si debba metter mano a una nuova attrezzatura concettuale.


Occorre sforzarsi di uscire dalle consuete e comode generalizzazioni per cogliere le particolarità, gli aspetti salienti, delle varie situazioni di lavoro.


Fino a non molti anni fa, non solo nel modo comune di intendere, si distingueva tra lavori manuali (operai), di concetto (impiegati) e direttivi (dirigenti), nonché tra forme di lavoro dipendente e autonomo: nelle fabbriche e negli uffici queste e poche altre distinzioni, accompagnate dallo sforzo di tener conto delle motivazioni dei singoli e di alcune pochi altri aspetti, bastavano a governare la realtà e a orientare le decisioni, senza particolari difficoltà.


Oggi ci si rende conto facilmente che il quadro offerto dalle tassonomie tradizionali non è bastevole - se mai lo è stato davvero - a decifrare la realtà del lavoro: né di quello dipendente, oggetto anche di plurime forme contrattuali, né del lavoro autonomo, “sparpagliato” in mille, diversissime e contrastanti situazioni.


L’ovvio motivo di questa insufficienza sta nel fatto che il mondo del lavoro è stato, per antonomasia, “il luogo” dell’impatto delle Nuove Tecnologie, con particolare riferimento alla Intelligenza Artificiale, nonché della maggiore esposizione agli effetti della Globalizzazione: fenomeni, entrambi, che rendono desuete e, comunque, scarsamente utilizzabili i vecchi schemi mentali in materia.


A fronte del progressivo avanzare di queste “perturbazioni”, la prima tentazione è stata quella di arricchire quantitativamente l’analisi, introducendo ulteriori distinzioni: tra lavori esposti, o no, all’impatto dell’intelligenza artificiale, tra mansioni esposte, o no, all’impatto dell’emigrazione (esposizioni, peraltro, ora negative, ora positive).


Anche per questa via non si è sfuggiti al rischio di comprensioni non pienamente soddisfacenti, non tanto per l’inesattezza delle distinzioni, ma per una caratteristica che le accomuna: quella di partire sempre dal lato di una presunta oggettività delle situazioni lavorative sulle quali interverrebbero, appunto, delle “perturbazioni”.


Un’osservazione più realistica ed efficace potrebbe essere favorita dall’utilizzazione di un modello inaugurato dall’antropologo Appadurai (1996). Il metodo muove dalla previa individuazione di Flussi-Fattori incidenti su una data realtà (Finanza, Tecnologia, Tecnica, Organizzazione, Cultura, Società, Etnia…).


La novità del metodo sta nel fatto che, i vari fattori -di cui, tutto sommato, si è sempre cercato di tener conto, non dovranno più essere considerati per le loro ricadute, quasi intervenissero su una “situazione lavorativa esistente comunque” e in attesa di essere caratterizzata; dovranno essere, viceversa, considerati a partire dalla singola situazione, che -già di per sé stessa- esiste proprio in quanto è punto di convergenza, “nodo” di fattori, a loro volta, in continua evoluzione e interazione.


Per sviluppare questo tipo di focalizzazione che riparte dalla concretezza della realtà del Lavoro, occorre riprendere in mano i fattori Finanziari, Tecnici, Organizzativi, Culturali-Ideologici ed Etnici anche prestando maggiore attenzione a nuove prospettive nell’ambito di variabili tradizionali.


Per quel che riguarda i fattori tecnici, dando per scontati gli aspetti da sempre presi in esame, oggi, ad esempio, assume particolare rilievo l’elemento della ripetitività non tanto in quanto tale ma come elemento prodromico di una possibile esposizione, non necessariamente negativa, all’intelligenza artificiale.


Anche gli aspetti organizzativi presentano delle problematicità inedite (o almeno crescenti) per la loro esposizione alla globalizzazione sia sotto la specie di decisioni sull’allungamento o all’accorciamento delle catene del valore con spostamento (all’estero o dall’estero) di attività produttive, sia sotto la specie dell’ingresso in Italia di lavoratori immigrati.


Tutto sommato, a me pare, comunque, che queste incidenze sul tema lavoro, assieme a quella della Finanza, siano già sufficientemente studiate e sorvegliate.


I temi che restano meno approfonditi e sistematizzati sono quelli delle influenze sull’attività lavorativa degli aspetti culturali, ideologici e etnici in cui sono avvolte le persone.


Quando si parla di condizionamenti culturali e ideologici non si intende fare riferimento ad astrusità ma alla possibilità di leggere situazioni concretissime quali, ad esempio, i casi di giovani italiani nati in Italia, che, conquistati dalla narrazione attorno agli chef, accettano più del prevedibile il mestiere di cuoco che, oltre ad essere gravoso, è soggetto a orari impossibili e a condizioni di contorno (vapore, calore) assolutamente sfavorevoli.


Altro caso, meritevole di “nuove lenti”, in cui le convinzioni culturali dei singoli hanno un peso rilevante, è quello dei molti lavoratori che, contrariamente all’aspettativa generale, stanno ridimensionando il loro entusiasmo iniziale per lo Smart Working a tempo pieno.


Rispetto ai fattori culturali, per le motivazioni che seguiranno, occorre comunque segnalare che la cultura delle masse non ci è più di aiuto e che occorre ormai prendere in considerazione una gran numero di sotto-culture (detto, ovviamente, non in senso spregiativo).


Un altro Fattore-Flusso che interessa il Lavoro è l’Etnicità che si fa sentire, innanzitutto, nella spartizione (per vocazione o per “ordine di arrivo”) dei ruoli lavorativi a seconda delle provenienze: cinesi nel commercio, europee dell’Est nei lavori di cura, albanesi e rumeni nell’edilizia, stallieri pakistani, pizzaioli egiziani etc…


L’impatto della componente etnica va, tuttavia, molto oltre questa semplice divisione di compiti ed è influenzata dalle caratteristiche dei “nuovi arrivati” sempre più protagonisti e partecipi di una Diaspora piuttosto che di una “semplice” Emigrazione.


Se, infatti, negli spostamenti transnazionali che si verificavano fino a metà del XIX secolo, gli immigrati, tagliati definitivamente i ponti con i Paesi di origine, cercavano di assimilarsi al più presto nello Stato ospitante si poteva parlare propriamente di Emigrazione, oggi, in molti casi, si deve parlare piuttosto di Diaspora: di uno spostamento di moltitudini che, anche grazie alla rivoluzione tecnologica e mediatica, tendono a restare maggiormente in contatto con le realtà di origine (…il famoso telefonino nelle mani di chi è appena scampato al naufragio!) e a conservare e perseguire una loro identità socioculturale (e religiosa).


Questo portare e mantenere con sé immaginari e convinzioni radicate determina lo spostamento nel Paese di arrivo di modi di pensare in certo modo indelebili ed estranei alla cultura ospitante di con cui occorre fare i conti a tempo indeterminato.


Le caratteristiche etniche, intrecciate a loro volta a peculiari vissuti e immaginari, oltre a travasarsi nel contesto lavorativo, determinano in Italia permanenze spesso provvisorie, in vista della aggregazione in comunità già presenti in altri Paesi Europei.


Se questo è il quadro, come non considerare tutti i fattori richiamati nella valutazione di appropriatezza di una mansione, nella formulazione di un orientamento, nella progettazione della formazione, nella prognosi di successo di un inserimento o nella programmazione di uno sviluppo professionale?


Come se poi le difficoltà di analisi non bastassero, occorre, in aggiunta, tener conto che le problematiche del Lavoro sono anche influenzate dal nuovo modo di configurarsi dello Spazio e del Tempo.


Lo Spazio, il territorio, è ormai segnato, più che dalle coordinate geografiche dalla pervietà delle comunicazioni reali e virtuali (se chiedessimo a un giovane “quanto c’è da Torino a Milano?” probabilmente ci risponderebbe non in chilometri, ma in tempo di percorrenza).


Il Tempo, d’altra parte, sempre più accelerato, sta andando incontro a fenomeni di desincronizzazione importanti la cui portata è stata solo in parte approfondita (H. Rosa); già a livello di senso comune, d’altra parte, percepiamo che, mai come oggi, il tempo, l’epoca vissuta all’interno di una multinazionale tecnologica non è quello vissuto nella piccola azienda artigianale o nel negozio di vicinato.


Per quanto detto, risulta evidente la necessità di abbandonare i vecchi schemi e, partendo ogni volta dalla concretezza delle situazioni, passare a un approccio che metta a fuoco lavori e lavoratori, oltreché in sé stessi e nelle tradizionali distinzioni, come punti di convergenza metastabili di mutevoli scenari di diversa natura.


Anche in materia di Lavoro, insomma, la complessità dei problemi richiede acutezza di indagine e un duro impegno indirizzato a soluzioni necessariamente complesse.


In questo impegno, gli Enti Locali potrebbero ritrovare una rinnovata ragion d’essere sulla materia e la Chiesa torinese, con il suo radicamento territoriale e la sua illustre tradizione nel sociale, potrebbe giocare un ruolo importante.





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