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I luoghi di lavoro sono comunità

Aggiornamento: 7 dic 2022


L'importanza dei luoghi di lavoro come Comunità emerge da mille indizi e, recentemente, anche da un toccante episodio di cronaca,


Partiamo da una constatazione: mentre le zone industriali sono comunemente ritenute “Non Luoghi”[1], scenari replicabili in qualunque hinterland urbano a qualunque latitudine, anonimi e spersonalizzanti, l’interno di una fabbrica, anche il più ostile, non è mai, almeno per chi ci lavora o ci ha lavorato, un Non Luogo.


In una fabbrica la partizione dettata dalle esigenze organizzative, a loro volta determinate dalla ricerca dell’efficienza, consegna a tutti un ruolo, un compito, una posizione che è sempre collocazione rispetto agli altri.


Potremmo dire che la cifra delle fabbriche è la contiguità, concetto a metà strada tra l’unità caotica della massa indistinta e la separazione irrevocabile dell’individualismo, un luogo in cui l’uomo non è più “uno” ma diventa “uno con gli altri” in una coesistenza che diventa plurale[2]


A questa coesistenza, questo farsi comunità, occorre attribuire una duplice valenza che si esercita sia rispetto ai singoli che rispetto alla società.


Rispetto ai singoli, occorre notare che nei luoghi di lavoro le persone, sia che restino in rapporto di semplice appartenenza, sia che si pongano in termini di differenziazione, o addirittura di contrasto rispetto agli assetti vigenti, non possono sfuggire alla contiguità e che è proprio tale condizione che procura loro irripetibili occasioni di crescita e realizzazione personale.


Che questa non sia teoria ce lo dicono le traiettorie vitali di tanti uomini e donne che, nel corso della loro vita lavorativa, soprattutto se all’interno di organizzazioni sindacali, hanno visto cambiare radicalmente il loro stare al mondo.


Teoria è, invece, quella che vuole razionalizzare e decifrare questo positivo processo di mutamento degli uomini situati nei luoghi di lavoro: al proposito, il più adatto, tra i tanti paradigmi di volta in volta inseguiti, mi pare quello della risonanza.


Risonanza[3] intesa come una forma di rapporto di reciprocità tra soggetto e altri soggetti, come pure tra soggetto e mondo, in cui i due elementi si toccano reciprocamente e allo stesso tempo si trasformano, in un rapporto che nella contiguità trova il suo habitat di elezione.


È all’interno delle fabbriche che le moderne Community di quelli che si scelgono sono sconfitte dalla Comunità coniugata dal caso: una realtà talmente mobilitante che, quando giunge al termine, procura ai suoi membri un trauma rilevante per una fine che è sempre vissuta come tragica e straziante.


È stato un trauma di questo tipo quello che ha avuto modo di manifestarsi anche recentemente in occasione della chiusura di uno stabilimento automobilistico del torinese: trauma non impedito dalla circostanza che la cessazione dell’attività fosse accompagnata dalla garanzia di riassorbimento degli addetti in altro stabilimento.


Quando le persone hanno dovuto prendere atto che il loro insediamento era destinato alla chiusura e che il loro "stare assieme" era destinato a terminare, hanno trovato del tutto consono alla situazione impossessarsi di piccoli ritagli dello striscione che li rappresentava nelle manifestazioni sindacali.


Questo gesto, a suo modo liturgico-rituale, promosso dalla Rappresentanza Sindacale, è avvenuto in un’epoca in cui tutti sottovalutiamo il senso di queste cose e in una compagine sociale sempre più individualizzata.


L’episodio, che ha reso icastico lo scioglimento della Comunità, ha trovato spazio nei giornali ma dovrebbe trovarne di più nelle riflessioni attorno al lavoro


Lo stesso concetto di Comunità, che abbiamo individuato come gravido di sviluppi nei rapporti tra le persone, è alla base della reciproca influenza tra le fabbriche e la società che le circonda e anche in tale seconda prospettiva, non ha mancato di essere fecondo.


Non possiamo dimenticare che, a partire dalle fabbriche, hanno preso corpo disegni di palingenesi sociale che, inizialmente, sono transitati in progetti rozzamente operaistici ma, subito dopo, sono sfociati in programmi più sofisticati.


Resta esemplare al proposito il pensiero e l’opera di Gramsci che, già al tempo dell’Ordine Nuovo, senza cedere alla tentazione operaistica, mobilitava tutte le proprie energie nel tentativo di innestare l’impegno degli intellettuali e del Partito nell’humus delle fabbriche, dalle quali sole avrebbe potuto sorgere il nuovo.


L’importanza dei luoghi di lavoro come Comunità ha pure ispirato i tentativi di “riconquista” dei lavoratori promossi dalla Chiesa a partire da Leone XIII in poi: in ordine di tempo, con la promozione di iniziative mutualistiche, con le esperienze dei Cappellani di Fabbrica, con il tentativo dei Preti Operai e oggi con l’elaborazione di una cultura della vicinanza e della fraternità.


Per inciso, in questa valorizzazione cristiana del Lavoro gioca un ruolo decisivo il pensiero di Tommaso d’Aquino che ha percorso sottotraccia i secoli e che anche oggi ci richiama a una concezione del lavoro non come semplice facere ma come un agere che consta di un’ineliminabile e nobilitante componente soggettiva[4]


Un altro indizio della rilevanza della fabbrica vista nella dimensione comunitaria deve essere rinvenuto anche in tante moderne teorie manageriali che, finalmente, giudicano imprescindibile il valore dell’inclusione


Restano ancora da fare due notazioni sempre attinenti alla fabbrica e agli uffici considerati nella loro accezione di Comunità.


La prima riguarda l’atteggiamento dei lavoratori verso l’esperienza dello “Smart Working” venuta prepotentemente (e disordinatamente) alla ribalta in concomitanza con la crisi pandemica.


Dopo il movimento centrifugo della prima ora, del “si salvi chi può” e del lavoro a casa a qualunque costo, non sfugge a nessuno che, fatti salvi in cui sono presenti esigenze di conciliazione, si è passati a una rivalutazione del valore del lavorare assieme che sta portando nei nostri giorni a una spinta centripeta.


Di grande interesse, a proposito dei discorsi appena svolti, la circostanza che questa spinta, inizialmente sostanziatasi nel semplice ritorno ai luoghi abituali, sta indirizzandosi in parte alla costituzione di innovative comunità di lavoro satelliti situate in “località ponte” tra gli insediamenti industriali e i centri urbani sedi di Università e Centri di ricerca.


La seconda ed ultima notazione riguarda l’atteggiamento che sta a monte della nostra attenzione alle fabbriche nella loro dimensione di incubatrici di crescita.


Questo interesse sta perdendo, a mio avviso, l’impronta della generatività: se, infatti, tutti siamo pronti a mobilitarci quando le fabbriche-comunità chiudono, lo stesso non può dirsi quando si tratta di favorirne la nascita o di frenarne il declino.


Nel dire questo penso alla mia Torino che, sull’argomento dell’occupazione, sembra dormire il sonno di Epimenide[5].


Come l’ultimo dei Sette Saggi, ridestatosi dopo cinquantasette anni, non si riconobbe più nella realtà che, nel frattempo, era cambiata, così non vorrei che anche la città, al risveglio dal lungo sonno, si trovasse a fare i conti con una realtà deindustrializzata, priva di quelle comunità di lavoro che tanto possono offrire ai loro partecipanti e che tanto possono arricchire l’ambiente in cui sono inserite.

[1] Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Marc Augé, Elèuthera; 7° edizione, Milano,1993 [2] Il concetto di “uno con gli altri” è di Jean Luc Nancy. Essere Singolare e plurale, Einaudi, Torino, 2020 [3] Il concetto di Risonanza è stato sviluppato approfonditamente da H Rosa. [4] De Veritate, q.4, a.2. in Il Lavoro nel pensiero di Tommaso d’Aquino, Coletti Editore, Roma, 1977 [5] Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, Bompiani, Milano, 2005

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